Il cane turco

 

Si guardò. Indossava quei suoi pantaloni larghi di cotone con i tasconi sulle gambe, una t-shirt bianca e il suo amato gilet tipo caccia. Aveva girato con lui mezzo mondo, pratico, leggero, pieno di tasche, una di quelle cose che finisci per amare perché con la loro versatilitá si adattano a tutte le tue esigenze e scopri pian piano di non saperci più rinunciare perché sono diventate una parte di te.

Era stato così anche con Yoko, un incontro casuale. Lui, dopo la fine tragica di Viviane, non aveva più trovato le energie per un nuovo amore. Una e-mail e un telefono lasciati solo per simpatia avevano piano piano dato inizio a uno scambio di messaggi sempre più frequente, sempre più desiderato.

L’ultima immagine nel suo letto di ospedale erano gli occhi di lei, gonfi di lacrime e stanchezza. Poi tutto si era annebbiato ed era cominciato il viaggio.

Aveva percorso lentamente il tunnel buio su verso quella luce bianca sospesa nell’aria, ma quando finalmente era arrivato la luce non c’era più.

Ed ora era lì nel mezzo di uno spazio profondo pervaso da un’oscurità assoluta, poggiando i piedi su qualcosa di solido ma immateriale.

Si sentiva bene, molto bene ora. Gli ultimi giorni erano stati terribili, la malattia era stata rapida e inesorabile ma nonostante il dolore, solo in parte attenuato dalla morfina, non aveva mai smesso di desiderare che tutto continuasse, che tutto potesse tornare indietro e questo gli lasciava un senso di impotenza e di colpa.

Si portò le mani al petto, il gilè era vuoto, niente portafogli, cellulare, coltello svizzero, documenti, occhiali da sole, penna, agenda elettronica…

Nei pantaloni lo stesso, neanche un fazzoletto ma nel tascone della coscia destra avvertì il contatto di un oggetto duro e pesante: la P220 che gli aveva procurato Vittorio, un’arma come poche.

 

Vittorio passava la vita nei migliori hotel del mondo ma soprattutto all’Hermitage a Montecarlo.

Cosa facesse per vivere o meglio per permettersi quella vita lo sapeva solo lui.

Ufficialmente commerciava in caffè. Con una telefonata Vittorio poteva procurarti una modella di grido, una Lamborghini, un ingresso per la notte degli Oscar e tutto con la stessa distratta disponibilità che aveva fin dai tempi del liceo. Compagni di banco fin dai primi giorni di scuola, esami preparati insieme, non smetteremo mai di essere amici.

E così in fondo era stato anche se ognuno poi era andato per le sue strade e i contatti per quanto sinceramente fraterni fossero diventati veramente rari.

Quando lo aveva chiamato per dirgli che i medici gli avevano diagnosticato più settimane che mesi di vita e gli aveva chiesto di procurargli un’arma, Vittorio non aveva fatto molte domande, aveva solo chiesto se intendeva usarla contro sé stesso o qualcun’altro.

“No, non è per me è per qualcuno che ho giurato di rincorrere anche all’inferno e non posso più rimandare”

“Allora ti serve qualcosa di infallibile e possibilmente con un puntatore laser visto che non ci azzeccavi mai quando prendevamo a sassate le lucertole”

Arrivò dopo qualche giorno con un pony express. Nella busta anche un biglietto: “Mi mancherai un casino, bastardo”.

La malattia prese il sopravvento sulle sue resistenze molto più rapidamente di quanto si aspettasse.

Solo tre settimane, neppure il tempo di riguardarsi per l’ultima volta tutte le sue fotografie.

 

Impugnò l’arma: peso, equilibrio, ergonomia, temperatura del materiale, finitura della superficie, tutto perfetto per renderla un’estensione naturale dell’arto che la reggeva.

Il raggio laser forava il buio e si perdeva nell’infinito.

Cos’era quello? Il paradiso? Certo come paradiso era un po’ disadorno, o forse il purgatorio? Possibile, una situazione di attesa, senza sofferenza né gioia, in attesa del nulla osta per la beatitudine.

O forse l’inferno? Il peggiore di tutti gli inferni, il buio, la solitudine, la compagnia solo di sé stessi, dei propri pensieri, dei propri rimpianti, delle proprie colpe, dei propri incubi.

Sentí il contatto dell’orologio sul polso, guardò l’ora. Il suo Patek Philippe Calatrava era fermo alle 10:38 di martedì quando i bip dello strumento sul ripiano accanto al letto erano impazziti; tutto si era fatto buio e aveva sentito il respiro di Yoko sul suo viso per l’ultima volta.

Il cinturino era liso e il cristallo scheggiato. Amava le cose personali un po’ consunte che rivelavano una storia, piene dei piccoli segni di momenti vissuti.

Sarà passata un’ora, o un giorno, o un secolo, pensò.

Scandagliando il buio ebbe la sensazione che l’oscurità fosse un po’ meno densa; rimase a scrutare cercando di percepire un improbabile orizzonte, quando un punto di luce apparve. Come una cometa l’oggetto luminoso si avvicinò quanto basta per illuminare il nulla dove lui si trovava e passò via velocissimo perdendosi in un’oscurità che ora era diventata lattiginosa.

Un lieve luminosità senza un’origine precisa si andava formando lentamente.

Pensieri come frecce cominciarono ad attraversare la sua mente.

Il film della sua vita correva davanti ai suoi occhi, occhi diversi che ora erano in grado di vedere la realtà sotto una luce diversa, l’essenza delle cose e dei gesti umani. E capì il motivo degli insuccessi, delle occasioni perse, dei rifiuti ricevuti, dell’odio, dell’amore, della depressione, dei momenti di follia e di rabbia.

In fondo era tutto così semplice, sarebbe bastato guardare tutto con gli occhi di un bimbo per cogliere la veritá.

Adesso la luce era completa e capì che quello non poteva essere l’inferno.

C’erano raggi colorati che passavano espandendosi come in un’aurora boreale e l’aria era dolce come quella della primavera...

Quanto tempo ci era voluto per arrivare a questo? Quanto tempo era passato da quando terminato il tunnel era arrivato qui? Il tempo non ha tempo, é una cosa relativa.

 

...........................................................................................................

 

Un cespuglio di foschia lì presso richiamò la sua attenzione.

Dai vapori evanescenti prese forma un’immagine: un uomo.

Un vecchio, un braccio e una gamba inerti, la barba incolta, le rughe.

Gli occhi, il destro semichiuso da una cicatrice, dissimulavano uno sguardo malvagio che si accompagnava a una piega sinistra della bocca: Canario.

“Chi sei?” chiese l’uomo con diffidenza.

“Guardami, chi sono?”

“Non ti conosco, qui è tutto buio, cosa vuoi da me?”

“Aspetta, tra poco ci sarà più luce e mi vedrai meglio”

Lo sguardo dell’uomo si aprì dal sospetto all’attenzione, poi alla sorpresa, infine allo smarrimento.

“Sono solo un vecchio, ho avuto un ictus anni fa, ho vissuto come un cane gli ultimi anni della mia vita senza nessuno che si curasse di me, quei figli di puttana mi hanno portato via tutto, sono morto in un’ospizio di carità, cosa fai qui? Cosa vuoi da me? Non posso fare niente per te, non ho più niente, è andata così, mi spiace per te e per lei, così è la vita…”

Il laser si accese e il raggio si proiettó, fermo, sopra l’occhio semichiuso dell’uomo.

Canario rise sgangherato e restò a fissarlo con il suo sguardo insolente.

“Ah, e adesso cosa vuoi fare? Dovevi farlo quando eravamo vivi. Adesso non mi puoi più uccidere!”.

“No, ma posso mandarti all’inferno” e premette il grilletto.

 

...........................................................................................................

 

 

Un’immagine si avvicinava lentamente da lontano, era come lo schermo di un film che gli andava rapidamente incontro.

 

“Duecento lire turche”

Werner scosse la testa e fece spallucce e finse di interessarsi a certe chincaglierie allineate sul terreno all’ingresso del negozio.

“ Tu di dove?” domandò l’uomo.

“Oesterreich, Austria”

“Ah, Austria, molto buono Austria, mio fratello tanti anni in Austria, lui parlare molto austriaco. Tu giovane, quanti anni”

“Ventidue”

“E tu che lavoro?”

“Non lavoro, studio. Ingegneria”

“Ah, questo molto buono, tu poi farai macchine”

“Speriamo” rise Werner.

Un cane, del colore della sua ombra, sporco e butterato si avvicinò. Aveva un occhio, il destro, semichiuso.

Nel momento che stava per fargli una carezza Werner colse in quello sguardo un lampo di cattiveria e ritrasse la mano appena in tempo per non essere azzannato.

“Via, bestiaccia, via” gridò il negoziante tentando di colpirlo con un calcio.

La bestia corse via veloce e si perse tra la gente nel vicolo pieno di botteghe.

“Lui cane turco, lui non buono”

Werner sorrise e lanciò lo sguardo a quel gilè tipo caccia che pendeva da una gruccia tra la mercanzia sopra la testa dell’uomo.

Era quello che gli serviva, leggero, pratico, molte tasche…

Il negoziante colse al volo l’occhiata e tornò alla carica.

“Ascolta, tu Austria, tu buono, Omar fa disconto speciale per te, centocinquanta lire, affare chiuso”

Forse ne valeva la metà ma non aveva voglia di perdere tempo in trattative interminabili.

Il bazaar di Konia prometteva scampoli di preziositá etnica e immagini uniche da fotografare.

Indossò il gilè, perfetto. Pagò. Il turco fece una riverenza.

“Lui molto bello, tu fatto affare buono, tornare ancora”.

 

Nella penombra senza tempo l’immagine si avvicinava rapidamente come a volerlo investire, si sentì avvolto dalla scena e il presente e il passato si fusero insieme.

 

Werner guardò l’ora, doveva essere quasi l’ora di pranzo. Le lancette, sotto il vetro scheggiato, erano ferme sulle 10:38.

Si mise a dare la carica inoltrandosi tra la folla multicolore.