l'Internazionale

gennaio 2010

 

Gliel’ho detto. Alla fine ho dovuto dirglielo.

Il parroco che avevamo è stato destinato in Curia a Natal e ne è arrivato uno nuovo. Molto dinamico e con una gran voglia di fare.

Ha fatto ridipingere la chiesa, ha fatto istallare dei fari per illuminarla di notte e ha iniziato una grossa divulgazione delle attività liturgiche.

 

Nello stile nordestino, ha attrezzato un’auto che gira a tempo pieno con gli altoparlanti avvisando delle iniziative e delle celebrazioni della chiesa.

Tra un avviso e l’altro uno stacco musicale.

Tutto nell’ordine delle cose, se non che lo stacco è inequivocabilmente l'Internazionale, l’inno della rivoluzione socialista.

Certo i tempi sono cambiati, simboli e riferimenti si sono mescolati nel marketing politico delle ideologie ma credo che, se in un corteo di scioperanti per il rinnovo del contratto, in mezzo alle bandiere rosse si cantasse Faccetta nera stonerebbe come i cavoli a merenda.

E allora gliel’ho detto.

 

Nel Nordeste del Brasile la storia delle lotte del proletariato e delle conquiste sindacali europee è completamente sconosciuta. Eccezionale è la presenza di una riproduzione, un po' stinta, del “Quarto Stato” di Pelizza da Volpedo su una parete dell’officina del gommista di Barra.

Irán, il gommista, mi spiega che l´ha vista da un rigattiere, gli è piaciuta, gli ispirava qualcosa cosí l’ha portata a casa, l’ha fatta incorniciare e l’ha appesa lí sul muro. C’è da dire che, per uno che vive sui pneumatici, una folla che va a piedi non dovrebbe costituire una grande attrattiva, ma tant’é.

Quando gli ho spiegato l’origine e il significato del dipinto non finiva piú di guardarselo e gli brillavano gli occhi di compiacimento.

 

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Irán è il tipico gommista.

I gommisti, qui come in tutto il mondo, non godono di particolare lustro nella nostra società fortemente orientata all’immagine; hanno a che fare con oggetti che si rotolano nella polvere e mordono il vile terreno, creature nere che non aspirano a riscatti sociali, l’unico loro contatto intimo è con l’altrettanto nero asfalto passivo ad ogni stimolo e cinicamente pronto a tradirle ad ogni curva, ad ogni pozza, ad ogni buca.

Il loro destino è impolverarsi, infangarsi, scorticarsi, volvere prone sul bitume rovente come serve umiliate, a volte finire in un faló, compagne di altre schiave che bruciano la propria dignità sul ciglio di una statale.

L’unico in grado di comprendere una gomma è lui, il gommista.

Voi entrate nella sua officina con il desiderio di andarvene al piú presto per l’acre odore di caucciù fuso col nerofumo e chiedete di dare un’occhiata ai pneumatici.

Lui si china deferente, non importa se sia una modesta Achilles ATR o una superba Bridgestone Pole Position, di fronte al gommista tutte hanno uguale dignitá.

Allunga la mano sotto il parafango ad accarezzare la curva del battistrada con lo sguardo assorto ed ispirato come se fosse la natica di Naomi Campbell.

Chi ha ascoltato il rammarico nella voce del gommista che scuotendo la testa sentenzia in un sospiro: “Questa è da cambiare” non puó non aver colto la sua pena.

E non puoi non provare vergogna di fronte al suo sguardo che mestamente ti rimprovera di aver trascurato chi ti ha fedelmente servito per decine di migliaia di chilometri senza avere in cambio, almeno una volta ogni tanto, un bilanciamento, una convergenza o un semplice controllo della pressione, artigliando la strada nei tuoi sorpassi azzardati e urlando di dolore nelle sgommate dei tuoi sabato sera di follie.

Le gomme sono al livello piú basso delle parti dell’ automobile, forse è il fatto di essere nere in questo mondo impregnato di razzismo o forse perché la gomma è da sempre uno dei simboli dello sfruttamento capitalistico del terzo mondo; agli inizi del ‘900 in Brasile, ancora oggi in Liberia, gente pagata una miseria lavora nella giungla, in condizioni di semischiavitú, raccogliendo il caucciù che le multinazionali della gomma trasformano in questi manufatti senza i quali il medioevo ci graffierebbe le chiappe.

Il gommista ha un cuore tenero e sensibile, forse anche lui di caucciú, ama le gomme che passano per il suo ospedale, una valvola, un tampone, una camera interna per i casi piú difficili, il compressore dell’aria per quando sei a terra e sempre quella carezza accorata.

“Che pressione?” chiede umilmente, ma la risposta è sempre la stessa: “Mah, non so, faccia lei”.

E il gommista con un sospiro sommesso che solo la gomma puó percepire gonfia a uno e nove davanti e uno e otto dietro sotto lo sguardo ottuso del cliente che non capisce tanta pignoleria.

Conosco uno che cambiava la macchina ogni cinque anni e gonfiava le gomme ogni dieci. E’ morto, uscito di strada sulla Serravalle; le gomme, paonazze per il debito di aria, hanno ceduto di schianto; nessuno ha pianto per loro, anzi.

Non c’è giustizia a questo mondo per le gomme.

 

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Niente da stupirsi che un parroco, giovane, nato e cresciuto qui, non abbia mai conosciuto l’inno che da sempre rappresenta i socialisti e  i comunisti di tutto il mondo.

Mi ha guardato un po’ sconcertato.

“Ma sei sicuro? Puó darsi che gli somigli…”

“No don Miguel, è uguale identico; a me non dá fastidio ma ho solo voluto che lei lo sapesse. Ma dove ha trovato lo spartito?”

“Ho conosciuto un ragazzo, sul pullman che mi portava qui, che viaggiava con lo zaino e aveva una chitarra e in mezzo ad altre canzoni ha suonato anche questa; io ho abbastanza orecchio, gliel’ho fatta ripetere alcune volte per memorizzarla perché mi piaceva e poi l’ho fatta eseguire qui a Tulio, l’organista della chiesa”.

“Beh, ora veda lei…”.

“No, no, è meglio toglierla. Solo che adesso mi devi suggerire un’alternativa.”

“Ma con tutti i testi di musica sacra che ci sono non puó cercarla lí in mezzo?”

“No, mi serve qualcosa di nuovo… di diverso… una musica che sia facilmente memorizzabile per i fedeli che poi la devono cantare, adatta ad essere eseguita in coro… coinvolgente e nello stesso tempo gradevole… ma niente nello stile tradizionale, dobbiamo trovare qualcosa di nuovo, la gente ha bisogno di melodie diverse per sentire che anche la chiesa si rinnova.”

“Guardi, non saprei…”

“Ma tu non frequenti la Scuola di Musica qui del paese?”

“A dire il vero ho fatto solo quattro lezioni di solfeggio, la Veronica invece è molto piú avanti, sta giá sodom… pardon, cercando di eseguire Gershwin, col clarino”

“Ghescin?”

“Gershwin, sa, uno di questi americani a cavallo tra il musical e il jazz…”

“Ah, no no, voglio qualcosa di molto semplice e orecchiabile. Tu che vieni dall’Italia, famosa, per quanto ne so, per la musica… non avete anche quel bellissimo concorso trasmesso in tutto il mondo…?”

“Boh… il Cantagiro?”

“No, ha il nome, mi sembra, di un santo…”

“Sanremo?”

“Bravo, San Remo, era un santo no?”

“Sí, il santo protettore dei papocchi”

“Dai, dammi un’idea, siamo sotto le feste”

A dire il vero c’era un motivo che mi girava per la testa fin dal primo mattino e altri al momento non me ne sono venuti in mente.

Passeggiando tenendogli un braccio sulle spalle, gliel’ho canticchiato un po’ di volte e gliel'ho fatto ripetere fino a quando non mi è sembrato che l’avesse acquisito.

“Ti ringrazio, adesso vado da Tulio e gli faccio metter giú le note e poi vedo di scriverci sopra delle parole adatte cosí lo eseguiamo la notte di Natale”.

 

Abbiamo ascoltato il brano al chiaro di luna, dalla nostra terrazza che guarda la piazza della chiesa, con davanti una buona bottiglia di vino cileno.

Devo dire che è venuto bene, ha un bel testo ispirato al Natale e la musica proprio fedele all’originale.

Speriamo solo che Mario Tessuto non lo venga a sapere.